Il DOPING EMATICO, PRESENTE E FUTURO: L'INCUBO DELLA GENETICA Torna alla Home Page
Dal dott. Benedetto Ronci, eminente ematologo clinico dell'Azienda Ospedaliera S. Giovanni Addolorata di Roma, riceviamo e pubblichiamo volentieri questo interessante contributo sul doping ematico e sui rischi dell'ormai imminente doping genetico legato proprio al sangue. Nell'articolo si fa giustizia di tante inesattezze pseudo-scientifiche e di tanti pregiudizi e preconcetti, come, ad esempio l'opinione diffusa che l'abuso di epo esogena debba  per forza lasciare segni indelebili sul fisico (ad esempio sul midollo osseo), o tracce rilevabili sotto il profilo anatomo-patologico. Da cui l'idea, scientificamente infondata, che un atleta che non presentasse tali tracce fosse automaticamente esente da pratiche dopanti. Ma si sottolinea anche il rischio più che concreto che le pratiche del doping genetico ormai alla portata (anche economica) di molti costituiscano una sorta di "nuova frontiera" di fronte alla quale tutto il sistema dell'antidoping ufficiale risulta fermo, in "surplace". L'atleta geneticamente modificato è ormai una drammatica possibilità, molto reale, con rischi (leucemia, tumori, ecc.) a medio e lungo termine ancora tutti da chiarire e scoprire. Occorre fare presto, perchè la scienza non resti come è già accaduto per tante sostanze doping, drammaticamente al palo, con conseguenze sulla salute facilmente immaginabili.

ABUSO DI EPO E MIDOLLO OSSEO: I DANNI SONO REVERSIBILI IN POCHI GIORNI

di Benedetto Ronci

Ematologo-clinico
Azienda ospedaliera S. Giovanni-Addolorata
Roma

ROMA - Continuamente dai mass-media viene affrontato, a vari livelli, il problema del doping dando seguito a polemiche sulla obbligatorietà o meno dei test sul sangue cui dovrebbero essere sottoposti gli atleti. In qualità di ematologo-clinico ho sentito la necessità di esprimere la mia opinione che non nasce da intuizioni di ordine puramente emotivo, ma da un mio preciso impegno professionale nel fare chiarezza sul fenomeno doping e soprattutto di chiarire, ai non tecnici del campo, la problematica assai complessa del doping in generale e di quello ematico in particolare. E’ fondamentale, in special modo da parte di coloro che si occupano di informazione/formazione a tutti i livelli (giornali, televisione, radio, internet, etc.), che il problema venga espresso in termini chiari e soprattutto scientificamente corretti, in modo da non creare spettacolarmente "vittime", addirittura qualche volta "eroi" da emulare (gli atleti) da una parte e "persecutori" (le autorità preposte ai controlli anti-doping) dall’altra. In primo luogo, è necessario tenere sempre presente il duplice obiettivo della lotta contro il fenomeno doping: garantire correttezza agonistica nella pratica dei vari sport e, soprattutto, tutelare la salute degli atleti. Infatti, questi sono spesso poco istruiti sulle conseguenze pericolose dell’utilizzo di sostanze o di metodi per aumentare lo propria prestazione se non addirittura inconsapevoli vittime, per non dire cavie, di pratiche farmacologiche con effetti a medio e a lungo termine poco conosciuti. Spesso si genera anche molta confusione sui tempi dei controlli sul sangue che solo se fatti immediatamente prima o dopo la gara possono essere, per la ricerca di alcune sostanze, sufficientemente indicativi, come cercherò di spiegare più avanti.

La definizione di doping ematico è stata introdotta negli anni ’70 per indicare l’uso delle trasfusioni di globuli rossi (autologhi od omologhi) al fine di aumentare il trasporto di ossigeno nel sangue, la cosiddetta "capacità aerobica", e quindi la performance negli sport soprattutto di "resistenza" (ciclismo su strada, sci di fondo, nuoto, canottaggio etc.). In realtà anche sulla base di diverse segnalazioni ed osservazioni da parte del CONI, il doping ematico è praticato anche in altre discipline. Basti pensare, per esempio, che l’incremento della concentrazione di ossigeno ematico accelera il recupero muscolare dopo esercizi di allenamento. E’ prudente quindi considerare la maggior parte degli sport (sia individuali che di squadra) a rischio di doping ematico. Alla fine degli anni ’80 con l’introduzione sul mercato, grazie alle tecniche di ingegneria genetica, dell’eritropoietina ricombinante (rHuEPO) e, successivamente, di sostanze "affini" capaci di stimolare l’eritropoiesi (la produzione dei globuli rossi), la pratica trasfusionale è stata sostituita dall’uso ed abuso di rHuEPO e sostanze analoghe tanto che, anche oggi , il doping ematico viene identificato, specialmente da parte dei mass-media, con l’EPO-doping. Questo è in parte giustificato dal fatto che dei 500 miliardi di vecchie lire che in Italia vengono spesi l’anno per i medicinali a scopo dopante oltre un terzo (187 miliardi di vecchie lire) riguardano proprio l’eritropoietina. Epo e sostanze affini, sono dunque il demonio assoluto? Ritengo che questo modo di pensare sia sostanzialmente errato per almeno due motivi:

In primo luogo, l’eritropoietina ricombinante e i prodotti "affini" sono sostanze ad attività ormonale in grado di stimolare potentemente la produzione di globuli rossi, che hanno una enorme importanza sotto il profilo terapeutico. Sono infatti oltre 500.000 i pazienti nel mondo che utilizzano l’EPO per il trattamento dell’anemia in corso di insufficienza renale cronica, con netto miglioramento della "quantità" e "qualità" della loro vita ed anche con un rapporto costo/beneficio vantaggioso. Negli ultimi anni, inoltre, le indicazioni e l’autorizzazioni all’impiego di questi ormoni a scopo terapeutico si sono estese al trattamento, per esempio, di alcune forme di anemia "refrattaria" altrimenti trasfusione-dipendenti e per il trattamento dell’anemia post-chemioterapia in corso di neoplasie ematologiche e non ematologiche con il duplice obiettivo di ridurre o prevenire le trasfusioni di sangue e di migliorare la qualità di vita del malato affetto da tumore maligno. Pertanto il "farmaco" eritropoietina non deve essere demonizzato ma, piuttosto, è indispensabile una razionalizzazione dell’impiego terapeutico da parte dei medici ed una attenta azione di sorveglianza sulla catena di produzione, distribuzione ed utilizzo del farmaco che soltanto una stretta collaborazione tra autorità sanitarie e compagnie farmaceutiche produttrici può efficacemente garantire.

In secondo luogo, nella realtà esistono altre forme di doping ematico, meno conosciute e meno pubblicizzate, che però devono essere tenute presenti soprattutto se si voglia pianificare una strategia anti-doping la più esaustiva possibile. Infatti è oggi possibile aumentare la concentrazione o la disponibilità di ossigeno arterioso per i muscoli, senza aumentare la concentrazione di emoglobina (la proteina che trasporta il 97% dell’ossigeno del sangue) e/o il numero dei globuli rossi circolanti (senza quindi nessuna modifica del famigerato ematocrito!!), attraverso, per esempio, la somministrazione dei cosiddetti trasportatori di ossigeno come i perfluorocarburi (PFC) piccole particelle inerti disponibili sotto forma di emulsioni che, somministrate per via venosa, sono capaci di aumentare la concentrazione di ossigeno disciolto come gas (senza quindi utilizzare l’emoglobina dell’organismo) con effetto praticamente immediato dopo la somministrazione e con successiva rapida eliminazione per via respiratoria: una unità di PFC (circa 100 ml di emulsione) libera una quantità di ossigeno pari ad 1-2 unità di sangue. Ma con controindicazioni e rischi certi e ancora sconosciuti. Poco si sa, infatti, circa gli effetti collaterali che possono derivare da un uso sconsiderato di queste sostanze. Poi, esistono le cosiddette soluzioni di emoglobina che sono delle vere e proprie emoglobine di varia origine (umana, bovina, prodotta attraverso tecniche di ingegneria genetica) variamente modificate per renderle più stabili e meno tossiche, che possono essere conservate, a differenza del sangue, per un lungo periodo. Queste emoglobine di sintesi non sono rintracciabili nelle urine, ma sono identificabili esclusivamente nel sangue, purché il prelievo del campione venga effettuato praticamente a ridosso della gara (poche ore prima o poche ore dopo). Si tratta infatti di sostanze che vengono rapidamente eliminate dal circolo sanguigno entro 12-24 ore al massimo.

Un’altra sostanza di cui si parlò (impropriamente) al Giro d’Italia 2001 (ma le fialette sequestrate ad un corridore rivelarono all’analisi contenere solo acqua e sale...), è rappresentata da una piccola molecola siglata RSR-13. Somministrata per via venosa (ma esistono anche formulazioni in compresse), è capace di liberare una maggiore quantità di ossigeno dall’emoglobina circolante ai muscoli con effetto immediato dopo la sua somministrazione ed anche in questo caso senza modificare l’ematocrito o la concentrazione di emoglobina. E’ evidente, pertanto, come le attuali strategie anti-doping siano ancora lontane dall’essere sufficientemente idonee per l’identificazione della sostanza o del metodo dopante e come, nello stesso tempo, l’esame del sangue sia irrinunciabile attualmente come indagine antidoping obbligatoria. Nel 1999, su iniziativa del Comitato Olimpico Internazionale, è nata la Word Anti-Doping Agency (WADA) un organismo internazionale che si avvale della collaborazione dell’Autorità sportive e politiche di tutti i Paesi con la finalità di unire le forze ed unificare gli interventi antidoping attraverso la discussione, l’approvazione e la messa in atto dei test diretti ed indiretti per la rilevazione delle sostanze o metodi dopanti insieme ad un accurata campagna educazionale rivolta soprattutto agli atleti iscritti nelle varie federazioni sportive (per coloro che vogliano approfondire, le iniziative e gli aggiornamenti della WADA sono facilmente accessibili sul sito www.wada-ama.org). La lista internazionale delle sostanze e metodi proibiti nello sport ed approvata dalla WADA con effetto dal 1 gennaio 2005 elenca tra i metodi oggi proibiti nell’ambito del doping ematico, non solo L’Epo e, naturalmente, le trasfusioni di globuli rossi, ma anche l’impiego di tutte quelle sostanze alle quali ho accennato e che, in realtà, non sono state in passato oggetto di sistematica ricerca come sostanze dopanti, nonostante fossero già disponibili alla fine degli anni ’90 e per le quali, pur esistendo dei facili sistemi di rilevazione, ancora mancano di una precisa regolamentazione e standardizzazione delle metodiche da applicare come test.

Ma il dato a mio avviso preoccupante è che la WADA nell’elaborazione della lista dei metodi proibiti nella pratica sportiva ha inserito anche il cosiddetto gene-doping, cioè il doping genetico, ovvero "…l’uso non terapeutico di cellule, geni, elementi genetici o della modulazione dell’espressione dei geni, aventi la capacità di aumentare la performance atletica". E’ oggi infatti tecnicamente possibile manipolare - ad esempio - il gene dell’eritropoietina e trasferirlo in un individuo attraverso un vettore virale (generalmente un adenovirus) capace di integrarsi con il genoma della cellula che "infetta", rendendola capace di produrre un maggiore quantità di eritropoietina "endogena". Già alla fine degli anni ’90 diversi ricercatori hanno dimostrato la fattibilità della tecnica di trasferimento genico ed oggi si deve prendere coscienza che accanto alla medicina tradizionale si sta ormai sempre più sviluppando quella che è stata definita la Genedicina. Grazie agli enormi progressi della biologia molecolare che ha permesso di individuare in molte malattie acquisite (non solo ereditarie e, quindi per definizione geneticamente determinate), specialmente tumorali, gli intimi meccanismi genetici e/o alcuni riarrangiamenti genetici responsabili in gran parte della patologia, è possibile sotto il profilo terapeutico avere come "target" proprio il/i gene/i coinvolto/i. Desta una certa impressione, ma anche una certa preoccupazione, la notizia dell’autorizzazione in Cina da parte delle Autorità competenti della terapia genetica per il trattamento del carcinoma a cellule squamose della testa e del collo che rappresenta un enorme problema socio-sanitario soprattutto nel sud del Paese. La tecnica, relativamente semplice, è stata approntata dalla SiBiono Genetech che utilizza un adenovirus che transfetta le cellule cancerose con un gene capace di limitare la loro crescita, senza tansfettare il genoma delle cellule sane minimizzando il rischio di un potenziale effetto leucemogeno. Oltre che semplice la tecnica è di basso costo (circa 360 dollari/dose) e di facile somministrazione (via intramuscolare) tanto che virtualmente qualsiasi medico può somministrarla. Dall’utilizzo terapeutico della tecnica di trasferimento genico al suo impiego come metodo dopante il passo è assai breve. Infatti da molto tempo è noto che differenze genetiche tra gli atleti possono essere responsabili di differenti prestazioni e possono risultare in un significativo aumento della performance. Nel 1964 ai Giochi Olimpici invernali di Innsbruck il finnico Eero Mäntyranta vinse due medaglie d’oro nello sci di fondo mostrando un enorme vantaggio rispetto ai suoi rivali. In realtà l’atleta Mantyranta era affetto da una condizione di poliglobulia familiare quindi ereditaria, determinata da una mutazione del gene che codifica il recettore per l’eritropoietina, che in parte normalmente svolge la funzione di interrompere lo stimolo eritropoietinico. La mancanza di questa funzione può portare ad uno stimolo eritropoietinico persistente con aumento della capacità di trasporto dell’ossigeno con gli eritrociti del 25-50%. Questa condizione naturalmente occorsa nell’atleta Mäntyranta, può essere riprodotta artificialmente utilizzando la tecnica di trasferimento genico, ma con tutti i rischi connessi sia alla terapia genetica, ancora non del tutto noti (oltre il possibile rischio di sviluppare leucemie acute, sono stati riportati delle morti inspiegabili per insufficienza epatica grave in soggetti trattati con terapia genica), sia agli effetti pericolosi per la salute a causa di uno stimolo eritropoietinico protratto e non fisiologico (trombosi, danni irreversibili a carico del midollo osseo etc.).

A tal proposito è utile sottolineare che non esistono però dei danni specifici a carico del midollo osseo indotti dall’abuso di eritropoietina. L’effetto è quello di una aumento della matrice del midollo osseo preposta alla produzione dei globuli rossi, reversibile dopo alcuni giorni od al massimo dopo alcune settimane dalla interruzione dalla somministrazione dell’Epo e non rilevabile sotto il profilo anatomo-patologico. Quando si parla di danni irreversibili mi riferisco ai possibili effetti patologici sul midollo osseo quali lo sviluppo di aplasia della serie rossa ovvero di processi proliferativi maligni indotti direttamente od indirettamente dall’assunzione di EPO. Se, come è possibile se non probabile, la tecnologia del trasferimento genico pervaderà lo sport, sarà molto difficile la sua individuazione ed al momento è molto difficile solo ipotizzare delle tecniche di rilevazione sicure ed affidabili dato che i prodotti dei geni sono indistinguibili da quelli naturali (per esempio, il test francese per l’individuazione dell’eritropoietina ricombinante nelle urine non sarebbe utile anche se effettuato nei tempi giusti). Personalmente, non credo che il futuro dei test per la rilevazione del doping ematico sia quello della ricerca ad ogni costo della metodica di rilevazione diretta della sostanza, sia essa nelle urine che nel sangue. Ritengo invece che la conoscenza del significato e delle basi scientifiche delle varie tecniche di doping ematico ed un intelligente ed attento esame delle conseguenze sulla variazione di alcuni parametri, non solo dell’ematocrito!!, a carico del sangue, (il campione ematico quindi rappresenta un test irrinunciabile!) dell’individuo che possono essere persistenti ma che non possono essere ritenute compatibili con una fisiologica variabilità, potranno costituire il vero deterrente per evitare od almeno limitare lo sconsiderato utilizzo del doping ematico.

Dr. Benedetto Ronci

Ematologo-clinico

Azienda ospedaliera S. Giovanni-Addolorata

di Roma

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